Fare cinema in Ticino, oggi
Intervista a Niccolò Castelli

Un'immagine dall'ultimo lavoro di Castelli, "Derby," prodotto in collaborazione con Erik Bernasconi. Fonte: https://vimeo.com/nicc

Un’immagine dall’ultimo lavoro di Castelli, « Derby, » prodotto in collaborazione con Erik Bernasconi.
Fonte: https://vimeo.com/niccdi

di Elia Agostinetti

 

Niccolò Castelli, classe 1982, non ha quasi più bisogno di presentazioni. Regista ticinese dalla promettente carriera, si è fatto conoscere nel mondo cinematografico con Tutti Giù, un film che ha raccontato le sfide del passaggio all’età adulta a più di 30 festival cinematografici internazionali. Niccolò non si considera un visionario talentuoso, ma si descrive piuttosto come “un curioso: io voglio raccontare quello che ho vissuto attraverso il cinema, che è un linguaggio.” E questa curiosità lo porta ad accettare incarichi anche pericolosi – ha colto l’occasione di girare un documentario in Afghanistan per la Croce Rossa, un’occasione che nessun’altro voleva cogliere – per poter vedere con i suoi occhi, “sperimentare sulla mia pelle. Quello che sopporto meno sono gli stereotipi, i cliché, le cose che ti vengono dette. Come ti viene proposto il mondo è diverso da come lo vivi tu veramente.” La possibilità di vedere direttamente le sfaccettature della realtà che da qui conosciamo solo attraverso i vari media disponibili gli permette di vivere “spicchi di realtà” che poi, raccontandoli attraverso i suoi film, possono cambiare la maniera in cui le persone pensano a contesti particolari.

È difficile farsi posto come giovane regista alle prime armi in Ticino?

Se si arriva in questo mondo facendo altre cose – come ad esempio me che ho fatto molto l’aiuto regista in altri film, e parallelamente lavoravo ai miei progetti, cortometraggi eccetera – lo spazio per provarci c’è per tutti. Il bello del Ticino è che essendo piccolo si riesce facilmente a conoscere le persone, e se si hanno delle idee e la voglia di lavorare prima o poi l’opportunità arriva. Nulla ti casca addosso e non si può pensare di arrivare e far la bella vita da artisti guadagnando chissà cosa: bisogna comunque trovare il modo per procurarsi la pagnotta, e bisogna esser pronti a sporcarsi le mani senza pensare di far solo il regista, ma anche lavorare per altri e intanto accumulare esperienza. Secondo me, bisogna pensare molto al contenuto, bisogna sapere cosa si vuole raccontare. Se si vuole trovare la propria strada o la propria fetta è perché si hanno delle storie da raccontare che son le tue, che si sentono in giro, che si leggono, occorre documentarsi. Alla fine è quello che fa la differenza: se tu hai una storia da raccontare la gente la ascolta, se sei bravo tecnicamente allora magari si sceglie di fare un altro percorso, di essere un buon tecnico, di fare degli spot TV, o di fare dei video con effetti speciali o dei video musicali. Ci sono altre strade che sono altrettanto buone, ma non son quelle né della finzione né del documentario.

Com’è stata l’accoglienza quando hai deciso di diventare un regista?

In Ticino la cosa bella è che c’è una nuova generazione – che parte da gente un po’ più vecchia di me e arriva ai giovani che adesso finiscono le scuole – che si muove tanto: ci sono la REC, ci sono le immagini di Alberto Meroni… Sta aumentando di molto la quantità di film e di proposte. Questo aiuta tutti, perché più film vengono fatti, più la qualità aumenta, più cose escono e più anche il pubblico si rende conto che esiste una produzione locale e che non esistono solo i film di Hollywood o quelli italiani. Chiaramente a noi piacerebbe tantissimo spingere per fare i film d’autore, più film d’essai, più film in lingua originale, però è il mercato che decide, decidono gli esercenti. Io so che più noi facciamo cose di qualità, più ci sarà una richiesta di queste cose, quindi magari gli esercenti si renderanno conto e daranno più spazio ai nostri film. Sta anche a noi di non lamentarci soltanto ma anche di spingere in questo senso. Per noi, il problema più grosso è la distribuzione. Io ho la fortuna che i film che ho fatto fino ad adesso sono andati bene ai festival e quindi iniziano a girare, però magari ti sbatti per tre anni per fare dei grossi lavori che vanno in due o tre sale in Ticino, e poi già in Svizzera Tedesca fai fatica, e se iniziano a non andare ai festival poi questi film non sai più dove farli vedere.

Da dove vengono i finanziamenti per i progetti?

Diciamo che la possibilità di fare dei film di questo tipo, che non siano proprio dei cinepanettoni o spot commerciali, viene dal fatto che ci sono dei fondi destinati all’arte, alla cultura, ai quali possiamo accedere. Precisamente il nostro partner principale è l’Ufficio Federale della Cultura che ha una Sezione Cinema. Non è facile ottenere quei fondi, perché bisogna andare per gradi, prima chiedere i finanziamenti per la scrittura, poi per la produzione, eccetera. Però senza questi finanziamenti sarebbe quasi impossibile fare del cinema. Poi c’è la SRG che ha un budget dedicato alle produzioni indipendenti, e anche senza di loro sarebbe quasi impossibile fare dei film. Questo budget è pensato solo per film esterni che loro coproducono e poi fanno vedere in tele, ed esiste solo perché la SRG ha un grosso mandato pubblico. Poi c’è il Cantone, che ha un piccolo budget che va a sostegno dei film; ci sono varie fondazioni, anche se in Ticino non c’è quasi niente. Noi dobbiamo rivolgerci per il 98% alla Svizzera Tedesca. Al di fuori di quel piccolo budget messo a disposizione dal Cantone e dalla RSI, penso che per me tutto il resto viene dalla Svizzera Tedesca o dall’estero. Purtroppo in Ticino i privati o le fondazioni culturali non investono nel cinema. Investono magari in altre forme d’arte, ma il cinema non è tanto considerato al momento.

Questi finanziamenti pubblici sottostanno a requisiti particolari? Qual è il livello di libertà concesso ai realizzatori?

A livello federale la libertà è totale: se vuoi dei finanziamenti per la scrittura mandi un dossier, che è molto difficile e molto complicato a livello burocratico perché ci vuole una trasparenza totale, essendo soldi pubblici. Quindi nel dossier, oltre all’idea e al soggetto del film, devi scrivere le motivazioni, il metodo, i finanziamenti, bisogna dimostrare che i salari sono pagati in maniera corretta a tutte le persone, che sono state assunte secondo diversi criteri. Dopo, una commissione di cui non conosci i componenti finché non ha deciso – in modo che non si possa fare pressione su di una persona – valuta i progetti. L’unica cosa che la confederazione richiede è che ci sia la sicurezza che i soldi vengano di nuovo spesi in Svizzera. Se io chiedo 500.000 franchi alla Confederazione per un film loro richiedono che essendo soldi pubblici si faccia lavorare gente di qui. Chiaro che se voglio fare un film ambientato in Tailandia al mare non posso girarlo in Svizzera, però almeno mi porto giù degli attori e dei tecnici svizzeri. Devo dimostrare che almeno quello che investono loro ricade nell’economia di chi ha dato quei soldi. Non posso pensare di chiedere a loro dei soldi per andare a farmi il mio filmino alle Bahamas e stare giù un anno a fare la bella vita.

Le varie associazioni cinematografiche ticinesi lavorano in maniera unita? Esiste una rete solida di aiuto reciproco?

Sì e no. Ogni associazione è una associazione di categoria che ha dei precisi interessi. Io per esempio sono nel comitato centrale dell’Associazione dei Registi e Sceneggiatori. È ovvio che il nostro interesse è che i registi e gli sceneggiatori abbiano la maggiore libertà possibile, per fare i loro film come vogliono. Di conseguenza non è sempre facile la discussione con l’Associazione dei Produttori Svizzeri, perché i produttori ogni tanto vogliono avere più potere loro sui film dato che anche loro prendono dei rischi. L’unione dipende sempre dal tema: ci sono molte tematiche, l’80% se vuoi, dove siamo molto uniti perché lottiamo per poter avere più libertà possibile o più soldi possibili per fare cinema indipendente, quindi costituito da produttori e registi insieme. Quando si va nel dettaglio di certe cose magari non sempre si va molto d’accordo, però queste associazioni creano molto network. Poi ognuno la pensa come vuole: io sono uno che spera sempre che vengano fatti film anche importanti a livello tematico, che raccontino qualcosa di noi. Per me se vengono usati soldi pubblici è per fare dei film che badino a chi li ha forniti. Alcune associazioni invece spingono per fare film da botteghino, che vadano bene commercialmente e che però a me non interessano.

Il tuo primo lungometraggio di finzione ad aver avuto successo fu Tutti Giù nel 2012, invitato ad oltre 30 festival cinematografici internazionali. Quali porte ti ha aperto?

È indubbio che aiuta in quanto biglietto da visita, oltre alla possibilità di andare ai festival e conoscere persone e di creare un network. Oggi per me è un po’ più facile perché dopo aver fatto documentari per alcuni anni, e so meglio come muovermi, avendo fatto vari festival so a chi far leggere la sceneggiatura per avere dei feedback, ed è stato anche più facile finanziare la scrittura del mio prossimo film. Durante il primo film ho lavorato un sacco di tempo senza guadagnar niente, scrivendo a casa mia in pigiama. Per il secondo film, almeno qualche spesa l’ho recuperata perché son riuscito ad ottenere dei finanziamenti grazie al “successo,” per così dire, del primo film. D’altra parte crea anche più pressione, dato che adesso i festival ed i distributori dicono “ok, ti sei fatto il nome, il prossimo film dobbiamo riuscire a spingerlo di più.” Loro investono anche più energie e più tempo per te, ma vogliono indietro di più. Quindi c’è più aspettativa. Magari se certi errori nel primo film te li perdonano, nel secondo un po’ meno. Alla fine io cerco di raccontare storie che secondo me valgono la pena essere raccontate. Però da qualche parte, nella testa, la pressione maggiore la senti.

Raccontaci qualcosa di questo tuo prossimo film.

Per ora posso dirti che è una storia legata a dei fatti realmente accaduti, frutto di esperienze che ho fatto negli ultimi anni sia in Nord Africa che in Medio Oriente. È un film che, in qualche modo, vuole far vedere delle sfumature su quello che viviamo oggi della nostra paura del diverso. Un film che ci confronta, ambientato sia in Nord Africa che a Lugano e in Ticino, che vuole capire come mai abbiamo così tanta paura di quelli che son diversi da noi e quindi gioca su questo tipo di conflitto. Se tutto va bene, lo girerò verso l’inizio del 2017, quindi ci vorrà ancora un po’: penso che fino a fine 2017, inizio 2018 non sarà pronto.

Elia Agostinetti