Il Jazz Manouche, fra tradizione e innovazione
Incontro con Jacopo Martini per parlare di musica, società e cultura

Django Reinhardt

Jacopo Martini è nato a Firenze il 31 dicembre 1975. Chitarrista e compositore, si interessa alla musica fin dalla giovanissima età. Si forma al Conservatorio prima di Livorno e successivamente di Firenze, studiando chitarra classica e composizione. Nel corso degli anni affina la sua formazione studiando con musicisti jazz di fama internazionale come Jim Hall, David Liebman, Barry Harris, Agostino Di Giorgio e Dario Lapenna. Nel 2000 durante un viaggio in Francia al Django Reinhardt Festival di Samois-Sur-Seine si innamora della musica manouche, una diramazione del jazz tradizionale nata dalla combinazione tra “standard” (brani) jazz americani e canzoni gitane popolari attorno agli anni ’30 a Parigi grazie al genio dello zingaro Django Reinhardt, musicista eclettico e rivoluzionario che suonava solo con due dita in seguito a una grave menomazione alla mano. Jacopo Martini diventa rapidamente uno dei più originali e preparati interpreti in Italia di questo genere musicale tanto coinvolgente quanto sconosciuto alla maggior parte delle persone. Tra le sue numerose collaborazioni si ricordano quelle con Lee Konitz e Tony Scott a livello internazionale e quelle con Stefano Bollani, Franco Cerri, Fabrizio Bosso e Enrico Rava per quanto riguarda il panorama italiano.
In questa intervista Martini ci parla non solo del jazz manouche ma anche, e soprattutto, del suo rapporto con la musica in generale, fatto di passione e sincerità, instancabile approfondimento e continua ricerca espressiva, senza rinunciare a riflessioni riguardo la società odierna con la quale, da musicista, è confrontato.

Com’è stato il tuo approccio con la musica e, di conseguenza, la tua formazione musicale?
Provengo da una famiglia di artisti, mio padre esercitava inizialmente la professione del cantante lirico per poi diventare pittore. Per questa ragione fin da piccolo ho sempre sentito respirare musica in casa, soprattutto musica classica. Ricordo che a cinque anni domandai così insistentemente a mio padre di comprarmi un mandolino che alla fine dovette comprarmelo: il gioco naturalmente non durò più di qualche giorno però quello fu il primo richiamo alla musica. A nove anni fu la volta del violino. Seguii alcuni corsi per qualche anno ma anche in quel caso mi stufai presto. Il terzo approccio con uno strumento musicale fu quello decisivo, fu quello con la chitarra. Iniziai circa a tredici anni, grazie a un amico di scuola che già suonava e che mi insegnò gli accordi basilari per strimpellare. Mi appassionai quasi immediatamente e cominciai a prendere lezioni, a suonare sempre di più e a migliorare le mie capacità. All’età di diciannove anni iniziai il Conservatorio prima a Livorno e, in un secondo tempo, a Firenze. Il mio percorso è stato tuttavia altalenante a livello accademico, non lo definirei strutturato e lineare; presi anche lezioni private, feci un periodo a Roma e studiai con Agostino Di Giorgio. Prima del jazz manouche suonai anche tanti altri genere (musica classica, jazz acustico o elettrico, feci anche composizione) e penso che possa essere una conseguenza positiva della mia non linearità da studente.

Com’è nata la tua passione per il jazz manouche? E come si è integrato questo genere nella tua crescita artistica?
Alla fine degli anni ’90 avevo, come tutti i ragazzi d’altronde, le idee poco chiare, mi altalenavo tra jazz classico e altri generi, senza sapere bene cosa fare. Stavo cercando la sintesi tra il linguaggio musicale europeo e l’improvvisazione, con la sua libertà espressiva. La scoperta del jazz manouche avvenne grazie a un amico e fu la risposta ideale alle mie ricerche. Quest’amico aveva un negozio di dischi che era un punto di ritrovo per i ragazzi della zona: si parlava di musica, si comprava qualche disco e allo stesso tempo si creava un gruppo di amici. Un giorno, essendo indeciso sul mio acquisto, mi propose un cd di Django Reinhardt, di cui conoscevo a malapena il nome. Seguii il suo consiglio e lo acquistai. Al primo ascolto non fu subito amore perché ero abituato ad ascoltare tutt’altro tipo di jazz, molto più recente e con qualità audio perfetta, mentre il suono di Django era un po’ “graffiante”, tipico delle registrazioni degli anni ’30. Nonostante ciò cominciai a suonare questo genere, proprio con l’amico che me lo aveva consigliato, e si creò pian piano il mood giusto e la sintesi che cercavo; dopo poco tempo, inutile dirlo, me ne innamorai. Il jazz manouche è stato fondamentale non tanto perché in quel momento capii di voler suonare solo quello, quanto più per la definizione del mio percorso musicale: da quel momento concepii la musica e il suo studio in modo diverso. Questo genere mi fornì lo stimolo di cui avevo bisogno per conoscere anche la tecnica, il linguaggio musicale, che prima non avevo. In più, all’epoca, non c’era internet e avvicinarsi allo stile giusto era molto difficile. Tuttavia questo fatto fu anch’esso stimolante perché mi spinse a compiere viaggi e a conoscere altri chitarristi. Insomma, è stata una formazione che mi ha permesso di crescere e di esprimermi.

Nei tuoi dischi si alternano interpretazioni di brani della tradizione jazz con composizioni originali non propriamente riconducibili al genere: quali sono le ragioni di questa scelta e come si sviluppa il processo compositivo?
Ho sempre sentito la necessità di comporre qualcosa di mio e di registrare dei dischi non completamente legati alla tradizione manouche ma con una forte componente personale. Il primo disco è uscito nel 2004 e s’intitola I Nuvoli, mentre il secondo è uscito nel 2010, in un momento tra l’altro di maggiore fermento musicale, e porta il nome di Il Viaggio di Renata. Il primo lo definirei come un disco di sintesi, dove c’è tanto di me e nel quale volevo far confluire le mie influenze anche precedenti al manouche, c’è tutto il mio passato musicale fino a quel momento, quindi musica classica, free jazz e jazz moderno, swing, bebop e altro. Le composizioni originali sono riconducibili più che al jazz manouche a un jazz di tipo mediterraneo e moderno con varie contaminazioni derivanti da altri generi. In coerenza con questa linea di eterogeneità musicale, nel disco si trovano anche diverse composizioni in cui un fondamentale contributo è dato dalla presenza della fisarmonica, strumento non propriamente della tradizione manouche. Il secondo disco è decisamente più maturo, c’è un’idea molto più definita di jazz manouche e questo fatto è dovuto anche alle tante esperienze di quel periodo che mi hanno fatto crescere. Quella del secondo disco è una musica per così dire più concreta rispetto a quella del primo, che va al di là dei confini dettati dal genere e con l’idea di inserirci anche qualcosa di più personale.

Questo genere purtroppo è ancora poco conosciuto, di nicchia potremmo dire: come reagisce il pubblico ai tuoi concerti?
La grande forza di questa musica è che solitamente piace anche a chi non la conosce. Piace alle persone che non sono abituate ad ascoltare jazz. Per esempio, chi va ad ascoltare un concerto di jazz americano senza conoscerlo, potrebbe rimanere un po’ basito; questo perché può non conoscere il linguaggio improvvisativo e le strutture armoniche. Chi invece ascolta un concerto di manouche, nonostante ci sia sempre l’improvvisazione, riesce ad apprezzarlo maggiormente grazie anche al ritmo incalzante che dà la possibilità di catalizzare l’attenzione dell’ascoltatore. Al contrario, nell’ambiente jazz più radicale questo genere è oggetto alle volte di snobismo a causa della sua natura popolare e quindi tendenzialmente di più facile ascolto. Inoltre, quando ho iniziato a praticarla, questa musica era esclusivamente proprietà delle comunità zingare, storicamente molto chiuse e generalmente avverse all’integrazione. Queste comunità, sparse soprattutto in Olanda e in Francia, tramandavano questa grande conoscenza, questa grande tradizione musicale e di conseguenza c’era anche un certo mistero intorno a questo genere, soprattutto per quanto riguardo lo stile e l’approccio alla chitarra. Il personaggio chiave che negli ultimi decenni ha sconvolto questo genere musicale in primo luogo nel modo di suonarlo e, di conseguenza, nella ricezione che il pubblico ne aveva, è il chitarrista alsaziano (naturalmente di origine zingara) Bireli Lagrène, che ha influenzato diverse generazioni di giovani chitarristi, soprattutto non zingari, rendendo questo genere di musica noto, di moda e finalmente esportato al di fuori dei confini delle comunità gitane. La continua ricerca e la continua innovazione restano degli elementi fondamentali: lo stesso Django Reinhardt, pur suonando benissimo il banjo, fu forzato dall’incidente che gli procurò una grave menomazione alla mano sinistra a inventarsi un nuovo modo di suonare la chitarra e fu proprio questo impedimento, questo ostacolo a favorire la creazione di questo genere. Per quanto mi riguarda, io punto a una ricerca personale che mi consenta di sviluppare un linguaggio musicale originale da poter lasciare a chi in futuro si interesserà al jazz e alla musica in generale.

Come si pone il mercato musicale italiano di fronte al jazz in generale e, nel caso ancora più specifico, di fronte al jazz manouche?
Negli ultimi anni la musica in Italia, come tutta la cultura, sta subendo un linciaggio, si sta depauperando tutto. Se prima c’erano delle schiere ristrette, dei festival che potevano ricevere sovvenzionamenti, adesso queste realtà non ci sono più, sono state smantellate e le poche attività organizzate che rimangono parlano quel linguaggio dell’economia che oggi purtroppo parliamo tutti. Magari mi capita di suonare in un festival e di notare come l’ultimo aspetto a cui gli organizzatori rivolgono la loro attenzione sia la musica, che passa in ultimo piano, sorpassata da tutta una serie di preoccupazioni di natura economica (come ad esempio gli sponsor). Lo scopo di un festival passa dal portare un grande musicista allo spendere una cifra per ricavarne una maggiore. Se prima si suonava in un locale per essere ascoltati dalle persone oggi la funzione del musicista sembra diventare sempre più estetica: i gestori dei locali cercano i musicisti non tanto per la loro musica quanto per rendere il loro locale sofisticato e raffinato. A volte succede anche che un gestore proponga una data e affibbi al musicista l’incarico di pubblicizzarla, il che, personalmente, mi sembra assurdo perché un musicista dovrebbe pensare alla propria musica, allo studio e al perfezionamento delle proprie capacità e non certo alla promozione dei concerti in cui si esibisce…

Quali sono le difficoltà che un musicista può incontrare in Italia nel 2017?
Indipendentemente dall’età, una persona che si approccia alla musica dovrebbe sempre tenere presente l’idea che la musica va fatta per divertirsi. Si tratta di un gioco che ha come obiettivo quello di farti stare bene. Per conferma, si pensi a lingue diverse dall’italiano come il tedesco, il francese e l’inglese dove rispettivamente spielen, jouer e play sono verbi che designano allo stesso tempo l’atto di giocare e l’atto di suonare uno strumento. La musica può essere esercitata fin da bambini, ai quali infatti si può chiedere di suonare uno strumento sicuramente prima che di scrivere un tema. Se l’attività musicale professionale viene affrontata anteponendo la propria immagine (o quella che si pensa di avere) allora non sarà redditizia perché bisogna essere al servizio della musica e non viceversa, bisogna, per avere un rapporto sincero riguardo alla propria espressione artistica, essere liberi, per quanto possibile, da ogni tipo di condizionamento. Vivere di musica mal si coniuga con l’intento di farla ma alla fine se veramente si vuole, con talento e abnegazione, è possibile anche intraprendere questa via e, almeno secondo me, la vita poi ti ripaga e le gioie che ti può dare la musica alla fine arrivano.

Qual è stata l’esperienza o la collaborazione che ritieni più importante, più significativa?
Ce ne sono state sicuramente tante. Per quanto riguarda la musica manouche le collaborazioni con Angelo Debarre, Lollo Meier e Andy Aitchison sono state tra le più importanti sia a livello musicale che umano. Suonare con Debarre è stata un’esperienza fondamentale, per me era una fonte d’ispirazione e un modello. È un chitarrista che ho studiato molto ma nonostante ciò tutto quello che appreso da lui l’ho metabolizzato ed elaborato: i suoi insegnamenti sono stati in un certo senso mediati dalle mie capacità e dai miei impulsi creativi. Un aneddoto divertente che mi viene in mente, che rende anche l’idea del carattere quantomeno particolare di alcuni zingari, riguarda il soggiorno nel 2005 a Samois-sur-Seine, in occasione del festival annuale di jazz manouche. Durante quella settimana io e un amico condividemmo il camper con un chitarrista zingaro di nome Matcho Winterstein. Passammo l’intero periodo del festival a stretto contatto suonando letteralmente giorno e notte. Per la fine del festival Matcho decise di fare una grigliata, così andammo a far la spesa e trovammo un posto stupendo, vicino a un bosco incontaminato nei pressi della Senna. Alla fine della grigliata lui voleva lasciare tutta l’immondizia lì, senza preoccuparsene minimamente. Io e il mio amico ci mettemmo allora, senza farci vedere, a raccogliere le varie cartacce e scarti e a metterli in una busta. Quando ci scoprì, Matcho andò su tutte le furie intimandoci di lasciare la spazzatura dov’era perché il camper era suo e non aveva intenzione di viaggiare con l’immondizia a bordo. Alla fine riuscimmo a trovare un compromesso e ci rimettemmo in viaggio con la busta della spazzatura attaccata al tergicristalli, per mettere d’accordo tutti.

È stato pubblicato quest’anno il libro didattico La chitarra jazz manouche, a cui hai collaborato con altri chitarristi italiani: com’è nata quest’idea e come è strutturato il libro?
L’idea arriva da Maurizio Geri, che è stato contattato da un produttore bolognese per fare un manuale didattico per incrementare la popolarità del genere e per renderlo stilisticamente più comprensibile per chi ci si volesse avvicinare. Geri ha deciso di coinvolgere i chitarristi più rappresentativi italiani, tra cui il sottoscritto, e ognuno di noi in seguito ha allestito un capitolo. Io, dal canto mio, mi sono occupato del linguaggio musicale proprio al manouche, ho inserito delle trascrizioni di varie interpretazioni di brani e degli esercizi utili per sviluppare e migliorare la particolare tecnica che questo genere richiede. Si tratta di un libro importante perché parte dalle radici, dagli aspetti più facili ed elementari fino ad arrivare, gradualmente, agli elementi più personali che vanno anche al di là del manouche.

Quali sono i progetti che stai portando avanti oggi, e cos’hai in serbo per il futuro?
Ultimamente ho avuto una bellissima collaborazione con due ottimi musicisti danesi, da cui è nato un bel confronto e dal quale spero possano nascere altre collaborazioni future. Allo stesso tempo sto preparando con Maurizio Geri (chitarrista manouche italiano, tra i primi a importare in Italia questo genere) un nuovo disco che si chiamerà Djambolulù. L’idea di questo disco è arrivata spontaneamente dal fatto che ci conosciamo da tanti anni e che siamo considerati i punti di riferimento di questo stile in Italia: collaboriamo insieme oramai da tempo ma questa è la prima volta in cui possiamo far confluire e intrecciare le nostre diverse esperienze all’interno di un disco completamente nostro. Anche nel caso di quest’album non ci sarà solo del manouche ma anche altri tipi di musica, di sonorità e di influenze, soprattutto provenienti dalla musica classica come, ad esempio, un arrangiamento del Vals Venezolano del compositore Antonio Lauro. A parte questo, continuo a suonare e a scrivere musica alternando chitarra classica e jazz, modificando il mio percorso musicale, cercando sempre una formazione che risulti essere personale e che mi permetta, allo stesso tempo, di esprimermi al meglio. È interessante perché trattandosi di un momento di transizione è difficile prevedere dove questo passaggio mi porterà e la misura in cui influirà sulla mia attività musicale.

Sito ufficiale: http://www.jacopomartini.com/