Un esperimento di cucito tra ricordi, storia e fantasia
Intervista a Carlo Silini, autore del romanzo Il ladro di ragazze

di GIADA PUCINO

«Non possiamo dire che ogni riferimento a persone e a fatti realmente accaduti sia puramente casuale. Alcuni dei personaggi descritti sono realmente esistiti: ne abbiamo letto gli antichi atti di nascita o di morte (di solito violenta) negli archivi parrocchiali di Mendrisio. A loro si sono interessati nel passato storici svizzeri e italiani. Anche alcuni fatti eccezionali narrati nel romanzo sono documentati. Buona parte dei luoghi descritti esiste ancora. Inoltre, l’ambientazione storica è stata ricostruita nel dettaglio. Tuttavia, la storia raccontata in queste pagine è frutto di fantasia: la trama del racconto, così come i caratteri, i pensieri, e le vicende dei protagonisti sono state inventate». Sono queste le parole che Carlo Silini scrive nella premessa al suo primo romanzo, Il ladro di ragazze (Gabriele Cappelli Editore 2015). Ho incontrato Carlo in un grazioso bar di Chiasso, dove ho avuto il piacere di chiacchierare con lui a proposito della sua opera.

 

Nel maggio 2015 ha pubblicato il suo primo romanzo, Il ladro di ragazze; in che circostanze è nata l’idea di questo racconto e come si è svolta l’indagine del materiale preparatorio?

Dieci anni fa mi trovavo in un periodo particolare della mia vita, e mi ricordai di una storia che mio padre mi raccontava spesso quando mi portava a giocare nei prati di San Martino e mi indicava il castello: la leggenda del “Mago di Cantone”. Rammentandomi di queste cose si fece sempre più forte la voglia di risolvere la leggenda. Inizialmente non pensai a un romanzo, ma a degli articoli da pubblicare nelle pagine culturali dedicati a varie leggende sviluppate e analizzate da me personalmente. Più lavoravo su questa leggenda, più mi appassionavo: divenne una specie di ossessione. Iniziai ad andare nei luoghi di cui parla, poi frequentai gli archivi storici e parrocchiali, dove trovai atti di nascita e di morte di alcuni personaggi di cui parlo nel libro. Mi si è aperto un mondo parallelo, come se il territorio dove sono cresciuto nascondesse un’altra realtà prima segreta. Venivo sempre più a conoscenza di una storia forte e drammatica, in cui per forza qualcosa di vero doveva esserci. Il mio spirito di giornalista mi spinse a chiedermi cosa ci fosse di vero. Indagando scoprii che alcuni storici avevano già elaborato delle ipotesi, soprattutto della figura del cattivo, Francesco Secco Borrella, cacciato dal ducato di Milano per aver compiuto dei delitti. Cominciai poi ad unire gli elementi della leggenda alla realtà storica, e mi resi conto che rimanevano numerosi buchi, delle zone opache. In quel momento capii che gli articoli di giornale non erano sufficienti, e quindi pensai a un romanzo. Il materiale che avevo raccolto era oltre le mie aspettative. Decisi quindi di provare a scrivere, non per una pubblicazione, ma per amici, che poi mi hanno però invogliato a pubblicare. Il libro appare quindi un esperimento di cucito dei miei ricordi, di ricerca storica, e di fantasia.

 

In che modo le ricerche svolte l’hanno aiutata a calarsi, e calare noi lettori, nell’ambiente di cui racconta?

Per fortuna esistono un sacco di studi storici sulla realtà del Seicento; il materiale di base mi è stato quindi subito chiaro: il Mendrisiotto era una regione povera, dominata da signori svizzeri, con un balivo che si occupava della sicurezza e lucrava sulle sentenze di processo. Religiosamente vi era invece la dipendenza da Como. Durante le ricerche sono venuto in possesso di documenti processuale agghiaccianti relativi a questo periodo: avvenivano condanne atroci, l’uso della tortura era molto presente e il brigantaggio rappresentava una piaga pericolosa. Mi sono quindi immaginato una sorta di “far west” svizzero nel Seicento, dove dominava la legge del più forte. Nella scrittura mi ha aiutato soprattutto ciò che resta, le chiese, i monumenti, le vie, e soprattutto il palazzo e la grotta. Ho passato molto tempo in questi luoghi, soprattutto alla grotta, dove in estate si vede la pozza con le stalattiti. Questi pezzi di storia mi sono stati molto utili perché sono rimasti pressoché inalterati dal Seicento: mi emoziona pensare che ciò che ha colpito me, potesse commuovere allo stesso modo un contadino o un parroco di quell’epoca. Esiste un filo di umanità che si trova impresso in questi luoghi.

 

Nelle ricerche che ha svolto, è venuto in contatto con discendenti delle famiglie di cui parla. Come questi incontri l’hanno aiutata per la narrazione?

Le famiglie di cui parlo nel libro sono tutte patrizie di Mendrisio e su di esse non ho compiuto particolari ricerche. Sono invece venuto in contatto con l’ultimo discendente note di Francesco Secco Borrella, il leader negativo della storia, grazie alle ricerche che ho compiuto in Italia. L’uomo è un giornalista competente in materia che cura una rivista della nobiltà italiana. Conosce quindi le dinamiche notarili riguardante il sangue blu. Ha parlato del suo avo descrivendolo come uno sciagurato perché fu il responsabile della rovina della sua famiglia, una delle più ricche della Lombardia. Questo incontro mi è stato molto utile anche per cercare di dare un lato umano al personaggio, vista la difficoltà di trovare documenti riguardanti il brigante. Il discendente mi ha anche indicato a Vimercate quello che lui ritiene essere il ritratto di Francesco Secco Borrella: si vede un uomo con un grande anello di perla, sorridente, sui quarant’anni.

 

Come ha costruito i personaggi, i loro caratteri, e la loro lingua?

Ho cercato di usare una lingua moderna, ma inserendo qua e là vocaboli seicenteschi, desunti principalmente dagli atti dei processi. Ho inserito anche il dialetto che si parla ancora oggi. La lingua che ho voluto ricreare è la più moderna possibile, perché deve eleggerlo una persona della nostra epoca. Tutti i linguaggi che ho usato servono a rendere il libro verosimile. Per quello che riguarda i personaggi, in parte li ho tratti dalla storia reale, attraverso documenti d’archivio. Li ho poi resi funzionali alla storia, immaginando come potessero intersecarsi per dar vita a questo tragico teatro di vita e di morte seicentesca. Per la loro umanità, non mi sono posti chissà quali modelli: in fondo gli impulsi naturali di allora sono uguali a quelli di oggi.

 

La costruzione del libro è particolare, i capitoli sono brevi e ognuno segue le vicende di personaggi distinti, ma sono comunque intrecciati tra loro. Perché ha scelto questa costruzione?

La costruzione del libro non è stata studiata in modo approfondito, dipende soprattutto da gusti personali: a me piacciono i romanzi che lasciano incollati alla storia. Ricordo che all’inizio scrissi circa cento pagine, belle, ma mi sembrava che la storia non decollasse. Le buttai via e ricominciai, con un altro ritmo. Il libro doveva essere veloce: all’inizio ho inserito informazioni storiche per comprendere quel mondo, il Mendrisiotto del Seicento, e le sue dinamiche politiche, dopo questo materiale di base utile alla comprensione, ho fatto decollare la storia. Avevo l’idea di chiudere tutti i fili aperti, un po’ come accade nei gialli. Non mi sono però fatto uno schemino a priori, avevo solo in mende come doveva essere la storia, ma poi mi sono lasciato anche trasportare, un po’ come quando si guida di notte: la destinazione la si conosce, ma non si vede esattamente la strada da percorrere.

 

Leggendo il libro, si notano vaghi riferimenti ai Promessi sposi. Quanto quest’opera, o altre opere letterarie, hanno influito sullo sviluppo del romanzo?

Non ho cercato né voluto il paragone con i “Promessi sposi”, ma l’epoca, i luoghi e i fatti storici hanno mi ci hanno portato. Le ricerche storiche su una stessa area geografica, vi sono due persone che si amano ma non possono stare insieme, e quini ha un certo momento ho dovuto pensarci. Inoltre, un professore di storia riteneva che Francesco Secco Borrella fosse l’Innominato raccontato dal Manzoni. Vi è però una differenza tra il mio romanzo e i “Promessi Sposi”: Manzoni ha una visione radicale della Provvidenza, che annoda e risolve, e che non mio romanzo è assente. Io ho una visione più scettica, anche se la fede è presente in ogni personaggio. Un romanzo storico a cui mi sono ispirato è il “Nome della rosa” di Umberto Eco: ho sempre apprezzato la capacità di Eco di usare un linguaggio corrente per descrivere documenti filosofici di alto livello, è quello che ho cercato di fare io con le visioni teologiche e i documenti dell’epoca.

 

Ci sono aspetti che richiamano l’attualità nel romanzo?

Un aspetto di attualità che ho voluto mettere in evidenza è la violenza sulle donne. Nel romanzo parlo di un maniaco che abusa segretamente di giovani donne e poi le uccide. Purtroppo la realtà delle violenze domestiche sulle donne nelle case, senza che diventino per forza dei casi di cronaca nera, è un problema dei giorni nostri.

 

Ha altri libri in programma, o altri progetti?

L’impatto di questo primo libro sulle persone è stato molto positivo, quindi mi sono detto di provare a scrivere qualcosa d’altro. In più, mi è anche piaciuto scrivere la storia. Nella fase di presentazione del libro sono venuto in contatto con le famiglie contadine che sono vissute nel Castello di Cantone, e per loro questo libro ha rappresentato una sorta di riscatto. Molti dei documenti che ho studiato per il primo libro non li ho usati ai fini della storia, ma ognuno di essi apre un mondo a sé. Sono poi incappato in una serie di scoperte casuali sempre riguardanti il Mendrisiotto nel Seicento e uno di questi documenti, studiato solo da uno storico di Como, per una strana coincidenza parla di uno dei personaggi del mio romanzo, quindi il destino ha voluto che continuassi su questa strada. Resto sul vado, ma si può immaginare sia un sequel.